
Sono trascorsi quasi due mesi da quando ho finito di leggerlo,
ma da allora non sono ancora riuscita a scriverne.
Inizialmente ero troppo colpita, coinvolta, attonita, poi quando il dolore del pugno nello stomaco
ha iniziato ad attutirsi, ho provato un’infinità di volte a mettere qualche pensiero nero su bianco.
Inutilmente.
Le parole sembravano sempre banali,le considerazioni troppo semplicistiche.
Del resto, come si fa a parlare di un libro cge ti ha devastato l’anima e ha parlato a ombre che da sempre vivono in me?
Come si fa a raccontare delle corte profonde toccate?
Però ora ho deciso che devo farlo, sebbene sia dispiaciuta in partenza del fatto che il mio post sarà una delle peggiori da me scritte,
pur essendo il libro quello che mi ha dato di più negli ultimi anni.
So che non riuscirei mai a dargli giustizia in un una vera recensione, per cui mi limiterò a scrivere qualche piccola frase che mi esce dal cuore.
Dalla prima pagina non è stata una lettura. E’ stato un viaggio.
Sono entrata insieme con Daniele bella stanza maleodorante che, per i sette giorni di TSO, è stata la sua casa.
Mi sono sentita intrappolata. Ho sofferto il caldo asfissiante.
Ero lì con la claustrofobia del dover condividere ogni momento con sette sconosciuti.
Le riflessioni di Daniele sull’empatia, sull’incapacità di poter vivere una vita serena quando si è circondati dalla sofferenza altrui,
le ho fatte tante volte anche io e vissute sulla mia pelle, soprattutto quando avevo vent’anni anche io.
Il labile confine tra sanità e malattia mi è sempre sembrato sottilissimo, inesistente.
E questo libro serve anche a metterlo in evidenza.
Sono andata a parlare con i medici con Daniele, ho provato insofferenza davanti alla loro indifferenza.
Piano piano ho smesso di considerare estranei e fastidiosi i compagni di stanza e mi sono affezionata a loro.
Sono uscita con lui, al termine della settimana, cambiata.
Ancora oggi mi chiedo cosa ne sia stato di Madonnina, che ha perso l’anima, e se Alessandro si sia risvegliato, come siano andate le cose a Gianluca, eternamente diviso tra bianco e nero, tra desiderio di amare e morte, a Mario,che trascorreva le sue giornate ad osservare un uccellino sull’albero accanto alla sua finestra e al gigante-bambino Giorgio.
Non puoi condividere la tua esistenza con cinque persone e poi non saperne più nulla.
Un libro struggente.
L’affinità che ho sentito con Daniele e col suo modo di percepire il mondo capita raramente e ancora non mi sono ripresa del tutto.